“Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade
Ho tanta stanchezza sulle spalle
Lasciatemi così
come una cosa posata in un angolo e dimenticata…”
Così comincia Ungaretti la sua poesia intitolata “Natale” e datata “Napoli, 26 dicembre 1916”, composta nel pieno della Grande Guerra da cui si era tirato fuori per una breve licenza. Le strade di Napoli, dove il poeta si è rifugiato, sono un formicaio di persone indaffarate alle prese con le compere, “lo struscio” per Toledo o incolonnate, come truppe, in “Spaccanapoli” o a “San Gregorio Armeno”: un andirivieni di volti, di colori, di gioia tutta partenopea che doveva stridere nella mente e nel cuore del poeta, rispetto alla tragedia delle trincee e all’odio degli “uomini contro”.
Inutilmente gli amici lo avranno incoraggiato a lasciare la stanza d’albergo o la tana presa in affitto per un’iperventilazione rispetto all’apnea in cui il giovane aveva vissuto tra parole d’ordine gridate nella notte, granate che squarciavano i timpani e il petto, giornate interminabili a marciare nella neve o a vegliare “in una grotta al freddo e al gelo”. Ungaretti sente sulle spalle “tanta stanchezza” per ciò che i suoi occhi avevano visto e ancora sarebbero stati costretti a guardare, e pare che in lui converga la stanchezza dei secoli, di generazioni e generazioni di uomini e donne che avevano sperato e puntualmente erano state deluse. Per questo non si unisce alla goliardia degli amici e a quanti intendono il Natale come una parentesi tra due atti di un dramma, un carnevale breve e illusorio prima di imboccare una Quaresima lunga e austera. Chiede agli amici di essere lasciato in un angolo “come una cosa posata e dimenticata”.
Siamo reduci dalle celebrazioni del centenario della “Grande Guerra” del 1915-18 e perciò ho pensato a questo testo del poeta-soldato che porta il titolo “Natale” e, nei suoi singhiozzi, non sembra accordarsi con l’atmosfera che, come un tappeto rosso, è stata stesa in città e nei paesi per permettere a tutti (ne siamo certi?) un Natale sereno. La citazione di Ungaretti e dei suoi sentimenti sembra troppo lontana da noi nel tempo e nello spazio, e rischia di essere recepita come una voce fuori coro, stonata, demolitrice dell’allegra atmosfera che è d’obbligo in queste ultime ore prima di sederci a tavola per il cenone o in chiesa per la messa di mezzanotte. So di correre questo rischio, ma mi chiedo se, a distanza di cento anni, siamo usciti da quella guerra cui è stato posto il diadema di “Grande” per distinguerla dall’altra, meno gloriosa e a cui è stato impedito l’ingresso nell’epica.
Siamo ancora in guerra e questi giorni rischiano di diventare per tanti solo una breve licenza dal fronte cui saremo inesorabilmente richiamati, dopo le tavolate affollate, il due di gennaio 2019. La stanchezza che Ungaretti sentiva è anche nostra. In città, e non solo, siamo andati alle urne la scorsa primavera e ci ritroviamo di nuovo in campagna elettorale, la crisi economica annunciata un decennio fa come una stella cometa di passaggio si è domiciliata nel villaggio globale e nessuno sa fino a quando, il lavoro su cui la nostra Costituzione decise di fondare la Repubblica è un bene sempre più prezioso perché raro soprattutto per le giovani generazioni, la fiducia nelle istituzioni (Chiesa compresa) sembra sempre più sfilacciata e difficile da riannodare, i grandi sentimenti di accoglienza che hanno rappresentato da sempre le nostre radici sono congelati nei confronti di chiunque (“fratelli d’Italia” o d’altrove) metta in forse il nostro benessere, la rabbia e la violenza esplodono nelle case e per le strade, e la famiglia, collante sociale e cellula della società, dopo aver speso i risparmi di una generazione sembra non avere più la forza-diga che, nei momenti più difficili, ha avuto in passato.
Potrei continuare a lungo, ma non mi va di disturbare la falsa pace del Natale di chi voglia godersi la “licenza premio” senza pensare al fronte da cui proviene e a cui sarà inesorabilmente chiamato quando si spegneranno “le luci del Natale” (c’era una volta “il Natale della luce”!). Nel mio piccolo però voglio fare compagnia a chi la stanchezza la vive e la sente, precipitato in pochi anni sotto il livello di povertà e che guarda con occhi grandi, come la Piccola Fiammiferaia, il Natale caldo e illuminato dei pochi, mentre accende gli ultimi fiammiferi per illuminare una notte troppo lunga e fredda. Nella composizione di Ungaretti il titolo “Natale” sembra rimandare solo alla datazione, non ha attinenza con il diniego a scendere nel “gomitolo di strade” e tanto meno con la stanchezza che ha fatto perdere la verginità a un giovane soldato (nulla quanto la violenza ci defrauda dell’infanzia!), eppure ogni parola, ogni verso breve e sincopato è attraversato da una profonda religiosità. Qui non ci sono le ciaramelle dei pascoli o lo scoccare delle ore sul campanile della chiesa di Guido Gozzano fino alla “mezzanotte santa” che faceva rima con “Maria divinamente affranta”, eppure, se tendi l’orecchio, puoi ascoltare un organo di chiesa a incorniciare i singhiozzi del poeta che chiude la sua composizione con:
“Qui non si sente altro che il caldo buono
Sto con le quattro capriole di fumo del focolare”
C’è un sorriso in questa chiusa che schiude un mistero e apre alla pace del cuore. Ora che l’allegra brigata ha chiuso la porta e sceso le scale con ostentata gioia, ora che il poeta è solo e libero di aprire il suo cuore al mistero del Natale, ci rannicchiamo anche noi intorno al fuoco che è il “caldo buono” che ci aiuterà ad attraversare questa notte. Non è il fuoco delle armi, né i fuochi pirotecnici di tanti discorsi in politichese che svaniscono all’atto in cui, per un istante, attirano la nostra attenzione, ma un ritrovato senso di casa e di famiglia dove il fumo, anziché tagliare il fiato o avvelenarlo di CO2, lo allarga e diventa gioco di capriole in una infanzia ritrovata. Il “caldo buono” è quello del bue e dell’asino, delle stalle della nostra infanzia, del Bambino che stiamo per deporre nella mangiatoia di Betlemme, “Casa del Pane”. Il Natale degli amici del poeta, già centodue anni fa, si contrappone con quello di Ungaretti che poggia e scioglie la sua stanchezza e la ricerca di solitudine accanto al “caldo buono” del Bambino, un caldo che trasforma il fumo del focolare di una cucina fuligginosa in capriole di gioia ritrovata. Dio non ha disdegnato il nostro gomitolo di strade e i pensieri contorti del nostro cuore, ma vi è sceso per permettere a un soldato in licenza-premio d’avere un momento di calda intimità pur nel bel mezzo di una guerra senza frontiere. Auguro lo stesso anche a tutti voi, più o meno credenti (che importa?) che state per mettere piede nel Natale 2018. Possiate ritrovare la pace per opera di Dio che è venuto a sposare le nostre guerre e le tempeste del nostro cuore. “Che importa? Tutto è grazia”.
Arturo Aiello
Vescovo di Avellino